Ieri per la prima volta in vita mia, ho tenuto una lezione (di tre ore e ciccia!) in inglese, per gli studenti di Laurea Magistrale in Ingegneria Informatica. A fine mattinata ero uno straccio: esperienza davvero complicata e fisicamente massacrante. Poi è ovvio, lo facessi con maggiore continuità, mi peserebbe molto meno, ma devo dire che (pur essendo discretamente soddisfatto della mia prestazione - speriamo lo siano anche gli studenti!) non mi aspettavo fosse così faticoso.
Alcune note sparse:
- mentre in italiano se non ti viene un termine o un concetto, ci puoi girare intorno e prenderlo dall'altra parte, insomma, trovi un modo per sfuggire all'impasse, in inglese (per il mio scarso livello di inglese) ciò è assolutamente impossibile. Ad un certo punto cercavo disperatamente la parola "confini", nel senso di boundaries, e non mi veniva. Blocco totale, sudorazione fantozziana, lingua felpata. Alla fine mi è venuto in mente borders (sapendo che era sbagliato) e ho usato quello. Ma i miei tentativi, per fortuna solo mentali, di trovare una strada alternativa, si arenavano prima ancora di iniziare.
- quella che ho tenuto è una lezione che ho avuto occasione di fare mille volte. In italiano ha raggiunto un livello di raffinatezza che mi consente di renderla anche scoppiettante, coinvolgente, simpatica. Faccio le mie battutine idiote, parlo di quarantenni che tentano improbabili ruletas (non sapete cosa sia? Gravissimo! Questa è la mia esecuzione preferita: http://youtu.be/3ulj0MUf1p8?t=1m41s) su campetti spelacchiati... in inglese è stato difficilissimo. Le mie battutine idiote non mi riuscivano ed ero talmente terrorizzato dal non saper come spiegare la parte "core" della lezione, da non pensare neppure lontanamente ad avventurarmi in excursus e deviazioni. Anche qui, credo si tratti di pratica: spero che già al prossimo tentativo - se mai ci sarà - vada meglio.
- [banale ma non troppo] c'è un'immensa differenza tra il fare una presentazione-da-conferenza (solitamente 15-20 minuti ad un pubblico tendenzialmente competente) e una lezione intera agli studenti e per di più così lunga. La parte in cui questa affermazione non è lapalissiana è che la differenza non avanza in progressione aritmetica con l'aumentare del tempo, ma ad un certo punto schizza via e ti lascia come una canocchia sul piatto dopo che è stata svuotata
- il maledetto corso d'inglese che sto seguendo è davvero tremendo. Nel senso che prima avanzavo a fari spenti nella notte, nella mia beata ignoranza, procedendo spedito ed incurante di ciò che dicevo nel dettaglio. Un sacco di errori ma anche incoscienza e apparente sicumera. Adesso, grazie al corso, mi rendo molto più conto rispetto a prima del fatto che colleziono errori su errori, so che è diverto dire stop doing something oppure sto to do something, ma non sono abbastanza abile da evitarli. Quindi ne sono consapevole, ma non posso farci nulla, oltre che recriminare.
In definitiva, visto che ciò è argomento di forte attualità presso l'Università dove lavoro, che il prossimo anno passerà un gran numero di lauree magistrali in inglese, si può dire che c'è stato un abbassamento della qualità didattica? Onestamente sì, senza alcun dubbio. Soprattutto per una lezione come quella che ho tenuto, che si muove all'incrocio tra nuove tecnologie e didattica, con molti concetti che hanno bisogno di una spiegazione approfondita. Se in una scala da 1 a 10 l'analoga lezione in italiano potrebbe valere 9 (che modesto!) quella in inglese vale si e no un 6 e mezzo risicato. Però la mia classe di ieri era davvero multietnica e quindi non avrebbe potuto fruire della versione italiana: proprio qui sta il reale valore dell'operazione! E allora la domanda diventa: vale la pena di abbassare la qualità, se questo significa diventare una vera istituzione internazionale? Ancora una volta non ho dubbi: sì, a mio avviso ne vale la pena. Anche perché sono sinceramente convinto che alla lunga e con la pratica quel 6 e 1/2 potrebbe essere tirato fino a un 7 e magari anche, impegnandosi con costanza ad un bel 7 e 1/2 emblée!
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