mercoledì 27 gennaio 2010

Avatar


Ovviamente sono andato a vedere Avatar. Anzi, non sono solo andato a vedere Avatar, sono andato a Melzo (il cinema con lo schermo più grande della zona e con l'audio thx che ti solleva dal seggiolino) il giorno che è uscito, dopo aspra lotta con il sistema di vendita online, blocco della procedura a metà, mail in pieno stile rissa-man al cinema e conquista dei biglietti sudata e perciò ancora più gustosa.
Ho aspettato di metabolizzarlo per recensirlo. Che dire? Ho letto tutto e il contrario di tutto, in questi giorni. Nessuno può dire che la trama sia originale (anzi, fa anche un po' girare le scatole che come al solito l'altro (in questo caso gli alieni, ma visto che la storia è archetipica, generalizziamo senza scrupolo) è buono ma fesso, e deve arrivare il marine di turno per fargli capire come stanno le cose davvero...) in quanto è trita e ritrita (Pocahontas, si è detto, ma mille altri libri/film). Però, ragazzi, che esperienza visiva/uditiva! Cameron ha inventato davvero un mondo, per l'occasione, ha quasi ripreso il concetto del borgesiano Tlon, perché ha costruito tutto il contorno di Pandora, fino a rendere quasi-reale il mondo stesso. Ha poi realizzato con una tecnologia sbalorditiva le riprese, immergendoci per 2 ore e 40 in questo mondo immaginario. 2 ore e 40 sono un sacco di tempo! Eppure all'uscita ero tutt'altro che annoiato, anzi, avrei voluto esplorare più a lungo la foresta luminosa, le montagne Halleluja, e provare a salire su un drago per volare (ci ho provato con il piccolo Uran, ma sembra che non regga il peso...).
Avatar è il primo film in 3D che vedo, tra l'altro, in cui la terza dimensione non appaia come un "di più", ma come un reale valore aggiunto, in cui le cose acquistano davvero consistenza tridimensionale, in cui ti senti immerso nel mondo, al centro dello schermo (nonostante la quarta fila a Melzo: molto, troppo, vicino).
Per sintetizzare: la storia è trascurabile (e credo che in home video il film risulti micidiale), ma l'esperienza sensoriale completa, vissuta al cinema, è pazzesca: un passo avanti, checché se ne possa pensare, perché il cinema da oggi in avanti dovrà giocoforza confrontarsi con le immagini di Avatar.

mercoledì 20 gennaio 2010

Gita a Berlino, e una nota particolare sul monumeto all'olocausto

Durante il superponte di S. Ambrogio siamo andati a Berlino. A questo indirizzo c'è una selezione delle belle foto che Anna ha scattato.
Non ero mai stato in Germania se non di passaggio e avevo aspettative molto elevate rispetto a questa gita.
Devo dire che sono state rispettate al 100%: Berlino è una città incredibile, dove ad ogni passo incontri un edificio stupefacente. Sotto il profilo architettonico è quasi come passeggiare per un immenso museo di architettura contemporanea, ci sono palazzi griffati dalle più famose archistar di tutto il mondo e sono bellissimi (soprattutto per chi come me ama vetro e acciaio!).
Inoltre c'è un rapporto profondissimo tra città e verde, con parchi cittadini smisurati, i prati...insomma, bello. Gli spazi in generale sorprendono per le loro dimensioni, per chi è abituato agli asfittici spazi milanesi (ma non solo: le città italiane soffrono molto spesso di questo problema) è notevole vedere l'abbondanza di spazi vuoti che la città offre (ad esempio, arrivando alla stazione centrale - costruzione mirabile tutta di vetro, in cui si vedono i treni entrare, incrociarsi su piani diversi ed uscire - si deve attraversare un prato che sembra immenso).
Aggiungiamo a questo quadro idilliaco la presenza (massiccia e abbondante) dei mercatini di Natale, luminosi, divertenti, opulenti e il sentimento di amore profondo in me suscitato dall'esistenza di gluwein (vin brulé) e bratwurst da mezzo metro...insomma, una vacanzina indimenticabile!
La presenza/assenza del muro è fonte di continua emozione visitando Berlino, tutto sembra richiamare i tempi in cui non si poteva attraversare la cortina che feriva mortalmente al cuore questa città. Il tracciato originale è segnato da mattonelle, alcuni settori sono ancora esistenti (il pezzo di muro più lungo esistente è oggi una galleria d'arte all'aria aperta - la east side gallery) ed in generale ove possibile viene sottolineata l'assenza di questa ingombrante barriera.
Un'altra presenza ingombrante, che si percepisce quasi fisicamente attraverso la ricostruzione della città è ovviamente quella del nazismo. Ed in particolare dell'olocausto. Berlino sembra essere riuscita a elaborare il lutto, anche attraverso l'architettura: il museo ebraico di Libeskind è un edificio che non puoi non notare, ed è estremamente simbolico anche ad un'osservazione superficiale.


Detto questo, c'è un monumento che più di tutti mi ha colpito ed impressionato in città, è il monumento all'olocausto, dell'architetto americano Peter Eisenmann, inaugurato nel 2004, a due passi dalla Porta di Brandeburgo, quindi nel cuore simbolico della città. 
Il monumento è una grande distesa di blocchi di cemento (sono più di duemila) di altezza variabile, poggiati su un pavimento movimentato, con salite e discese. Altezza e larghezza dei blocchi sono uniformi e così anche la distanza a cui sono posti l'uno dall'altro in un reticolo fitto (ma ci si passa senza problemi), attraversato da vie diritte (ma con costanti avvallamenti sul piano verticale). I blocchi di cemento dall'altro sembrano subito tombe, questo monumento è una distesa di lapidi. Entrando si ha subito un senso di angoscia, si percepisce subito che si sta per passeggiare tra le tombe. Avanzando poi questo sentimento si amplifica: la strada scende e pertanto l'altezza dei blocchi di cemento supera quella della tua testa. Inoltre si ha un forte senso di disorientamento: ogni fila (e la disposizione ordinata  sembra rassicurante!) è identica alla precedente, ci si sente persi, non si riesce a distinguere dove finisca, si capisce quanto sia facile perdere i propri punti di riferimento e perdersi. Io e Anna siamo entrati assieme, ma bastava spostarsi di un paio di file per sentirsi abbandonati, soli in mezzo alle lapidi. Il fatto poi che i blocchi siano così fitti impedisce di pre-vedere l'incrocio con altri visitatori, che ti compaiono letteralmente dinnanzi, o di fianco, facendoti sobbalzare. Impressionante. Ci siamo stati anche di notte, in una notte di pioggia, e entrambi ci siamo detti "entriamo, perché siamo in due, ma se fossimo da soli, non avremmo questo coraggio". Ed è proprio così, anche in due non siamo riusciti ad addentrarci troppo in questa foresta di pietre tombali, vinti dalla paura e dal sentimento di angoscia. 
Si è detto che questo monumento è per i tedeschi, e non per gli ebrei: lo credo anche io. Ma dico di più, non è solo per i tedeschi, è per chiunque: chiunque ci entri deve pensare a quanto accadde allora e riflettere su quanto è facile per l'uomo cadere nei drammatici errori di cui la nostra storia è costellata.

venerdì 15 gennaio 2010

Anna Politkovskaja - Cecenia. Il disonore russo.


Ho finito il libro. E' stata un'esperienza sconvolgente. Ci ho messo tantissimo a leggerlo, perché facevo fatica a leggere più di un tot di pagine al giorno, è davvero un pugno nello stomaco.
Ciò che fa più impressione, al di là delle ovvie riflessioni sul fatto che la Politkovskaja sia morta solo perché voleva dire la verità (e questo a livello teorico è il mestiere del giornalista), è che la Russia è qui, dietro l'angolo.
Non è più l'orso sovietico, lontano in un luogo remoto ad Est. Mosca è vicina, Putin è vicino, la Russia è uno sconfinato paese che il mondo moderno ci ha avvicinato in maniera sconvolgente. Eppure, l'esercito russo fa le cose che Anna descrive, la deriva autoritarista dei militari, i responsabili di crimini gravissimi che vivono nella certezza dell'impunità, la storia della tragedia del Nord-Ost raccontata in maniera lucida da chi è stata tradita mentre si sbatteva per evitare la strage che poi è avvenuta...sconvolgente.
Prima di essere uccisa l'autrice ha dovuto sopportare privazioni, intimidazioni, minacce, botte e arresti.
Sin dalla nota introduttiva di Saviano, e poi proseguendo per queste pagine cariche di verità, trasudanti fango e sangue, si resta impressionati. E non si può fare a meno di pensare che queste pagine urlano e chiedono ai governanti occidentali (in primis il premier italiano che non perde occasione per sbandierare la sua amicizia personale con il soggetto) di rispondere della love story dell'occidente con Putin.

venerdì 8 gennaio 2010

La passeggiata dell'ubriaco - Leonard Mlodinow




La mia sorella B (grazie!) mi ha donato questo libro molto interessante, di un autore dalla biografia senza dubbio curiosa: sceneggiatore (tra l'altro di star trek), professore, matematico, dotato di genitori conosciutisi in campo di concentramento e scampati allo sterminio...insomma, deve essere un bel personaggio.
Il libro mira a mostrare quanto il caos incida nelle nostre vite e a dimostrare che noi (in quanto esseri razionali, profondamente in-formati da quello che secondo De Kerchove è il brainframe alfabetico) tendiamo ad attribuire alla causalità molti eventi che in realtà sarebbero da attribuire alla casualità.
Il libro contiene sia una breve storia della statistica e nello specifico della scoperta delle"leggi del caso" sia delle dimostrazioni davvero interessanti.
I limiti del testo è che da un lato manca di rigore (il tema è per esempio affrontato in maniera estremamente più rigorosa in "Caso e caos" di D. Ruelle), e dall'altro costringe il lettore non particolarmente ferrato in matematica (Aldo) a dei veri salti mortali per capire alcuni fondamenti. Ma il vero difetto è il finale in cui il nostro eroe cade in tentazione pseudomistica e decide di diventare prescrittivo (del tipo "ora che sapete quanto il caso incida sulle vostre vite, non fate più questo e quello").
Insomma: divertente, ma non decisivo. Ah il titolo allude al fatto che i percorsi fatti dagli ubriachi quando camminano sono, per l'appunto...casuali!