giovedì 30 luglio 2015

La banalità del male - Hannah Arendt

Da alcuni anni volevo affrontare questo libro, che ha ovviamente una serie di particolarità notevolissime: è il resoconto, fatto da una filosofa (anche se lei non amava essere definita così) ebrea tedesca del processo tenuto in Israele contro Adolf Eichmann, uno dei criminali nazisti che dopo la fine della guerra era riuscito a far perdere le proprie tracce in Sudamerica. Rapito in Argentina dai servizi segreti israeliani, condotto in Israele e qui processato, condannato a morte e poi giustiziato. Hannah Arendt seguì il processo come corrispondente del New Yorker e questo libro rappresenta non tanto una cronaca del processo, quanto una riflessione a tutto tondo su come il nazismo abbia potuto stregare un'intera nazione.
La cosa che più affascina del libro è la lucidità con cui la Arendt affronta sia il processo sia il tema nel suo complesso, evitando la facile tentazione di accreditare la versione di chi tentava di dipingere Eichmann come un mostro dalla insensata crudeltà. Ci restituisce piuttosto il ritratto di un burocrate, preoccupato della propria carriera, senza alcuna spinta ideologica nel partecipare allo sterminio dell'Olocausto, concentrato piuttosto sui piccoli successi professionali e sull'efficenza del proprio operare. Una parte fondamentale è giocata, secondo l'autrice, dalla capacità che i capi nazisti hanno avuto, di imporre un gergo (Sprachregelung) in grado di anestetizzare, sotto parole e concetti meno terribili, azioni che una persona sana di mente trova naturalmente aberranti. La famosa "soluzione finale", termine molto più leggiadro di "sterminio del popolo ebraico" è un ottimo esempio. Attraverso questi accorgimenti milioni di persone si sono trovati quasi imbottigliati in un meccanismo burocratizzato che ha spersonalizzato sia le vittime sia i carnefici. Eichmann non agisce spinto da odio o da motivazioni ideologiche, ma è un ingranaggio in un meccanismo che alla fin fine non comprende fino in fondo. Così riesce a compiere azioni tremendamente delittuose, che fanno accapponare la pelle al solo pensiero in maniera banale, quasi senza avvedersene. Dalle sue mani è passata la sorte (tragica) di milioni di persone e per tutto il libro si ha la netta sensazione che lui fosse più preoccupato che i treni per i lager arrivassero in orario che di cosa stava facendo.
Un libro che colpisce forte, che vale la pena ed è necessario leggere. Perché questo è accaduto poco più di mezzo secolo fa. Perché la banalità del male, che lo stato di Israele ha processato nel 1961, torna di grande attualità, proprio in quelle terre. E chi ha conosciuto il dolore della vittima spesso dalla parte del carnefice.
Non abbassiamo la guardia, perché per perpetrare i peggiori orrori, ci insegna Hannah Arendt, non occorre davvero essere mostri crudeli e perversi.
5 stelle, ovvio

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