lunedì 4 aprile 2011

Roland Bathes - La camera chiara

Ho appena finito, per motivi di studio (lo studente tardivo è in azione!) questo breve libro, che non conoscevo, di Roland Barthes. L'ho letto subito dopo aver affrontato il Discorso sulla fotografia di Paul Valéry (interessante, ma troppo solenne e accademico) e soprattutto il testo Sulla fotografia di Susan Sontag, che ho trovato farraginoso, ripetitivo e non particolarmente acuto (complicato, ma non acuto). Il testo di Barthes è invece l'esatto opposto: acuto, pungente, affascinante.

Barthes costruisce una sorta di percorso in stile cartesiano (all'inizio richiama molto il Descartes del Discorso sul metodo) per cercare di risalire - con approccio semiotico - alla cosa stessa della fotografia. Il suo è un approccio inizialmente induttivo (constata l'impossibilità di un approccio deduttivo, poiché ogni foto sortisce effetti diversi sui diversi osservatori) ma che alla fine conclude con alcune nozioni universali.
Uno degli aspetti più affascinanti del libro è che - contrariamente a molti soloni della fotografia - distingue il punto di vista dello Spectator da quello dell'Operator e non essendo un fotografo, decide di soffermarsi sul primo piuttosto che su secondo, evitando così la classica retorica del genio fotografico che da buon artista coglie la realtà (nietzscheanamente mi verrebbe da dire: la rende menzogna).
I due processi di studium e punctum che mette in luce sono interessanti, ma credo che la nozione più genuina del testo sia la definizione del noema della fotografia: "è stato". Questo essere stato e la contemporanea aderenza totale (quasi tautologica, dice Barthes) al referente rende la fotografia vicina alla Morte. Come non collegare questa riflessione da un lato al Todestrieb freudiano e dall'altro all'essere-per-la-morte heiddegeriano?
La fotografia, certificando l'è stato (e non a caso Barthes dice: il suo tempo è l'aoristo e non il perfetto) certifica sia la pulsione tutta umana, la tensione alla morte, sia rende esplicito il fondamento più profondo del nostro esserci. E lo certifica, per così dire.
Lettura non facile, ma mai banale

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